La scorsa settimana sono stato invitato come docente al seminario “Comunicazione e divulgazione della fisica” organizzato dall’INFN di Frascati e coordinato da Franco Fabbri e Monica Bertani. Il seminario è consistito in una quattro giorni di incontri (seminari), dibattiti (arena di discussione) e progetti (Working group) svolti presso l’Hotel Helio Cabala di Marino.
I temi sono stati tradizionali ma non solo: dalla carta stampata alla radio, persino le forme teatrali di comunicazione della scienza.
E tanto per testare la comunicatività dei ricercatori, a pranzo e a cena erano previsti degli ospiti esterni che potevano interagire con con domande e altre curiosità sulla scienza e sul ruolo dello scienziato.
Non a caso il nome di questo momento del progetto era “A tavola con lo scienziato”.
Chi segue i miei lavori, sa che sono piuttosto interessato ai temi della cosiddetta “Scienza 2.0”, ma in questa occasione mi è stato chiesto di ricoprire un ruolo un po’ più classico, ovvero illustrare i processi della comunicazione della scienza intesa come Public Understanding fo Science.
Per i curiosi, basta dare un’occhiata alle slide di cui sopra.
Il seminario è stata un’ottima occasione per confrontarmi con professionisti del mondo scientifico – per lo più ricercatori e tecnologi dell’INFN – che stanno in prima linea sul fronte della comunicazione della scienza (della fisica per la precisione). La cosa interessante è che questa prima linea se la sono scelta loro e non è un loro ruolo istituzionale.
Per intenderci sono loro che provano a farsi comunicatori della scienza, senza avere un incarico diretto dalla loro struttura.
C’erano fisici da tutta Italia che si occupavano di diverse aree di studio, con una prevedibile prevalenza della fisica particellare.
Qui metto – in maniera disordinata – un paio di riflessioni che ho fatto a mente fredda sull’evento.
1. Resistenza ai social media
Da “chi ha il tempo di usare queste cose” a “non mi sembra che siano strumenti utili per comunicare la scienza”: questa era la gamma di commenti – alcuni, non tutti – che venivano fatti quando sono stati loro illustrati i social media intesi come promozione dell’immagine scientifica (impegnativo ruolo ricoperto da Michela Fragona). E’ stato piuttosto “difficile” far passare l’idea che se chi fa ricerca deve cambiare l’immagine della scienza che ha il grande pubblico, deve ricorrere anche a questi strumenti.
2. Ostilità nei confronti della stampa
I giornalisti in genere – quelli scientifici un po’ meno – sono visti come il fumo negli occhi (e a dire la verità anche qualche blasonato sociologo nostrano….). L’idea è che sono persone che non sanno nulla di scienza e pretendono di comunicarla. Io ho cercato di buttare acqua sul fuoco illustrando alcuni processi – framing, newsmaking – che limitano la “correttezza” di “trasferimento” del sapere dal scienziato al giornalista (NB: nella sociologia della comunicazione il concetto di trasferimento non esiste).
Ma sicuramente è stata una battaglia di retroguardia, anche perchè molti hanno raccontato aneddoti di questo tipo (cito a memoria, qualche info sarà un po’ “sporca”).
Durante il congresso di Torino per l’assegnazione della medaglia Edoardo Amaldi, il Corriere della Sera esce con un titolo “Scoperto un oggetto astronomico di 10.000 anni luce fa”. Chi conosce un po’ l’astronomia sa che l’anno luce è una misura di distanza e non di tempo: è come se il titolo dicesse dire “trovato un bastone lungo 25 minuti”. Alla lettera del presidente della SIGRAV che faceva notare lo svarione, non c’è stata alcuna risposta da parte del direttore De Bortoli.
3. Rassegnazione per il ruolo del ricercatore scientifico e della scienza in Italia
“Lo scienziato è considerato un opinion leader?”, “Come intervenire nei dibattiti politici sull’energia nucleare?”, “In che modo è possibile far sentire la voce di chi lavora nel campo scientifico?”.
Queste sono alcune delle domande che mi sono state poste dall’uditorio, che rivelano un po’ di rassegnazione per un paese che taglia i fondi alla ricerca e costringe le proprie menti migliori ad andarsene per trovare un lavoro, dopo che per formarle si sono investiti circa un milione di euro.
Oltre che denigrare la figura dei chi lavora con la scienza, sia esso ricercatore che tecnologo.
Sono molto contento di aver partecipato a questo seminario poichè in cambio delle mie teorie sociologiche ho avuto indietro l’esperienza e per certi versi la rabbia di chi lavora in questo campo – la scienza – e vorrebbe condividere con gli altri la bellezza di ciò che fa.
PS: che cos’è un tecnologo? Da quello che ho capito è un ingegnere che lavora a contatto con i ricercatori e si occupa di risolvere problemi legati ai macchinari usati per fare ricerca
PPS: ho provato – con difficoltà – a twittare qualcosa in diretta: ho usato il tag #INFNcomunicare.
Comincio con il rispondere al tuo PS: sì, un tecnologo è più o meno quella figura ossia un ingegnere, ma non sempre, che svolge un ruolo di progettazione e aiuto nella parte tecnologica di costruzione e cura dei macchinari.
Ora, invece, passerei alla parte sociologica dell’intervento: l’ultimo giorno si è parlato di stereotipi sulla figura dello scienziato e di quanto i presenti avessero la reale volontà di smontarli ponendosi in maniera critica nei confronti degli interlocutori e della comunicazione stessa. Le ostilità nei confronti del web 2.0, nate proprio da chi doveva essere lì per valutare e conoscere i mezzi che possono aiutare nella comunicazione, sono la risposta al pensiero che alcuni scienziati (sensazione nata seguendo questa scuola, ma anche altri incontri sulla comunicazione della scienza) hanno nei confronti della divulgazione e comunicazione: non sono loro che devono adattarsi ai media, ma sono i media che devono adattarsi a loro. E di conseguenza chi usufruisce di tali media. Quanto è corretto questo?
Simona,
grazie della delucidazione sul tecnologo.
Molto interessante la sensazione che condividi e che effettivamente non avevo colto.
Pensare che i media si debbano adattare agli scienziati per poterli meglio comunicare è un atto di arroganza che sfiora l’ingenuità.
I media raccontano – non solo la scienza – e come tale possono distorcere.
Sta a chi è oggetto del racconto dare strumenti perchè ci sia una informazione/divulgazione corretta.
Se invece prevale l’atteggiamento snobistico del “dicano quello che gli pare tanto sono incompetenti”, poi però non ci si deve stupire che l’immagine pubblica della scienza sia legata solo a critiche e sensazioni di rischio, e chi fa ricerca scientifica non abbia alcun ruolo nel dibattito pubblico sulla ricerca.
Dove dibattito pubblico vuol dire fondi, legittimazione, sensibilizzazione e così via.
Assolutamente d’accordo con te. Infatti quello che sorprende e che mi ha sorpreso durante la scuola è il fatto che gli studenti lì seduti hanno ascoltato/registrato tutti gli interventi inerenti le teorie della comunicazione (come costruire un dialogo proficuo, l’uso degli strumenti classici della comunicazione ad es.), ma quando si è arrivati al web 2.0 ci sia stato fermento. Lo scienziato che molto più di altri è abituato da decenni a “passaggio di informazione” tra macchina e uomo, si stupisce che possa esserci una divulgazione positiva attraverso la mediazione di un computer e interagendo con esso. Basta aggiungere alla teoria “matematica” dell’informazione, che usano dalla nascita del computer, un po’ di ridondanza nell’informare e una risposta del destinatario…ma questo pare che non piaccia a tutti. 🙂