Prendo in prestito (modificato) un bel titolo di un celebre libro di David Foster Wallace per raccontare di un’esperienza straniante che mi è capitata ieri.
Giusto ieri – infatti – sono stato ospite della trasmissione Estate in diretta, condotta da Marco Liorni e Lorella Landi, che altro non è che la versione vacanziera della celebre La vita in diretta, condotta su Rai1 da Lamberto Sposini.
Ho fatto parte di un rapido talk show – siparietto, mi verrebbe da dire – che aveva come tema Facebook, condotto da Lorella Landi. E fin qui niente di male.
In questo mio ruolo di esperto di cose della rete, ero accompagnato da Paolo Bottazzini, autore di un bel libro su Google e dintorni dal titolo Googlecrazia.
Dopo averci microfonato, abbiamo atteso dietro le quinte il nostro ingresso in studio.
Gli ospiti – vari rappresentanti del mondo dello spettacolo e delle istituzioni, con tanto di sacerdote – stavano conversando del caso di Melania Rea, commentando sul fatto che il presunto killer della donna, il marito Salvatore Parolisi, avesse parlato di questo suo delitto su Facebook con la sua giovane amante.
Questo è stato l’assist che ha permesso a me e Paolo di entrare in studio e accomodarci sul divano accanto al nutrito parterre.
Il servizio (a firma di Laura Costantini) con cui si lanciava la parte dedicata a Facebook aveva il sobrio titolo di “La follia corre sulla rete” e raccontava – meglio – raccoglieva tutto il peggiore armamentario dei pericoli del web, dei pericoli di Facebook e l’idea che lanciava era che Facebook e la rete in realtà altro non sono che luoghi che servono a dare voce a personaggi come Anders Breivik, autore del massacro accaduto in Norvegia lo scorso venerdì.
Stacco. Si torna in studio.
Mi danno la parola sulla domanda: “perché le persone si affidano a questi spazi virtuali?”
Io rispondo sfoderando le classiche argomentazioni di un corso base di media digitali: non sono spazi virtuali, sono usati in continuità con la vita quotidiana, le persone su Facebook la prima cosa che fanno è cercare le persone che conoscono, sono ormai risultati assodati da diversi anni di ricerche nazionali e internazionali.
Sono soddisfatto: ho fatto la mia parte di personaggio televisivo (l’esperto che spiega in modo non tecnico cosa sono ‘sti social networks)
Tocca al sacerdote, don Pieracci mi sembra si chiamasse, tirato in causa a disquisire sulla domanda: “quali sono i pericoli di questi social network?”
E qui una serie di stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi e banalità che se detti da una persona in giacca sarebbero suonati quantomeno sproloqui da incompetenti, ma detti in abito da clergyman, hanno avuto l’effetto di veementi attacchi contro l’idolatria di queste tecnologie.
Come credo si possa notare dalla faccia che avevo, ero letteralmente allibito.
Non tanto per l’attacco ai social network – anch’io su questi social media nutro dei dubbi, frutto di studi e ricerche – ma per la qualità dell’argomentazione.
La cosa che mi ha disgustato, è che in un impeto di captatio benevolentiae, il sacerdote ha fatto riferimento ad un non meglio precisato “sito di bestemmiatori”, che in un meccanismo pavloviano di ossequio all’autorità religiosa ha fatto partire l’applauso dello studio.
Beninteso: sono ovviamente d’accordo che su internet chi infrange la legge sia perseguito. Così come sia perseguito chi si macchia di vilipendio della religione (anche se è un reato piuttosto particolare che meriterebbe un ragionamento a parte).
Ma la domanda è: quand’anche esistessero, e non ho motivo di pensare che non esistano, che diavolo centrano ‘sti siti con Facebook?
Ovviamente non ho potuto criticare la posizione sacerdotale: nei tempi televisivi, avevo occupato lo slot di 3 minuti a mia disposizione e quindi avanti un altro.
Quello che mi fa specie è che la cultura cattolica contemporanea sulle comunicazioni sociali, non è così banale e retriva come il suo rappresentante televisivo.
Magari si può non essere d’accordo su tali posizioni perché si affronta da un altro punto di vista la questione (per quanto mi riguarda laico e liberale), ma gli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II e lo stesso Benedetto XVI in diverse occasioni hanno speso parole importanti sulla validità e l’utilità dei social networks e dei social media.
Non a caso in occasione della apertura del canale Twitter ufficiale della Santa Sede, c’è stato a Roma un interessante incontro con i blogger e i rappresentanti delle istituzioni comunicative del Vaticano.
Comunque, per rendere l’idea del personaggio clericale al mio fianco, durante un servizio che a mò di edificante siaparietto mostrava una donna lasciata dal marito perchè questo la tradiva su Facebook, mi ha confidato – per dire – due cose.
Alla mia battuta sul fatto che se bisogna limitare i social networks, bisognerebbe limitare anche la televisione, mi ha risposto – concordando – cercando di essere il simpatico che la televisione andrebbe usata solo per vedere il telegiornale, “La vita in diretta”, “Striscia la notizia” e “Paperissima”. (!!!)
Tornando serio ha continuato dicendo che inoltre con questi social networks si perde il sonno e la mattina dopo non si riesce ad essere presenti a se stessi. Come capita al suo – non ho capito se domestico o seminarista – turco che passa la notte a chattare con i suoi amici in Turchia.
Eccerto: per quale diavolo di motivo un immigrato deve chattare la notte con gli amici della sua terra d’origine quando la mattina dopo deve essere alle dipendenze di un prelato?
Al di là di tutto, quello che mi inquieta è la cosa seguente: che tipo di idea si sarà fatto il pubblico a casa?
Chi odia Facebook, continuerà a odiarlo.
Chi lo ama continuerà ad amarlo.
Ma chi lo conosce poco?
Avrà capito che è un luogo di libertà dove le persone possono fare di tutto, anche sbagliare, o un ricettacolo di terroristi, traditori di mogli, bestemmiatori eccetera?
Ma è questo il messaggio che deve dare la Rai, la rete pubblica italiana?
C’è chi lotta per avere giornalisti “scomodi” o “contro” in televisione, ma bisognerebbe anche introdurre idee ed argomenti che non siano l’assoluta banalizzazione del mondo circostante.
Per questi motivi, quello di fare l’ospite televisivo nelle trasmissioni pop è una cosa divertente che rifarei volentieri, perché come lavoratori della conoscenza (non riesco a dire la parola “intellettuali”) non possiamo permetterci il lusso di lasciare spazio a un certo modo di interpretare il mondo circostante, internet inclusa.
Mi fa sempre troppa impressione vedere quanta competenza ci voglia per farsi un’idea personale guardando determinati programmi televisivi.
E mi mette tristezza sapere che gran parte della massa non la possiede e viene cosi indirizzata da alcuni programmi a far proprie idee assurde, anche grazie all’utilizzo di figure, per alcuni, di riferimento(vedi il prete).
Profonda tristezza.