Due riflessioni sul P2P

Dopo circa 45 minuti di conversazione al telefono al pomeriggio dello scorso mercoledì 22 giugno, Stefano Carli mi ha citato come fonte per un suo articolo sulla musica online apparso su "Repubblica – Affari e Finanza" di lunedì 27 giugno, e che voi potete leggere online qui.

Durante la telefonata abbiamo parlato di tutto: da Shaolin Soccer diffuso in P2P prima che fosse distribuito nelle sale, al fatto che una buona fetta dei file sharers sono persone che cercano album e brani che non riescono più a trovare nei cataloghi delle major soffocati da Justin Timberlake e altre amenità di simile portata.

Peer To Peer. Se permettete, avrei voglia di fare un paio i riflessioni.
Secondo me il file sharing NON E’ una pratica il cui scopo è uccidere l’industria discografica, bensì è una vera e propria cultura internet nata dall’esigenza di consumare i cosiddetti contenuti pregiati: musica e da qualche tempo anche cinema.

Internet viene visto come un canale che serve per approvvigionarsi di contenuti ma che non sostituisce altre forme di distribuzione. E’ compito dell’industria leggere le strategie di consumo di file sharing in forma sintomatica, ovvero come sintomo del fatto che sta crescendo una nuova generazione di consumatori di contenuti, più frammentata, più esigente, più attenta alle politiche di prezzo, ma non per questo meno interessante dal punto di vista del business.

Tutte le reazioni dell’industria nel criminalizzare questi comportamenti è solo isteria. La free press non ha sottratto lettori ai giornali tradizionali, anzi ha fatto entrare nell’arena della comunicazione stampata delle persone che non erano abituati a questo medium e c’è da pensare che presto o tardi cominceranno a diventare lettori di testate tradizionali. Similmente, il consumo di file sharing è una forma di romanzo di formazione per adolescenti squattrinati che diventerà una palestra per l’affinamento di consumi musicali che li trasformerà in acquirenti di dischi.

Questo tipo di processo è quello che da qualche tempo gli studiosi di media chiamano remediation: la TV non ha ucciso la radio, il cinema non si è estinto per colpa della TV, la scrittura non è stata fiaccata da internet (anzi), i libri non sono scomparsi per colpa dei portatili.
I consumatori di media si creano un proprio percorso di consumo fra tutti i sistemi che forniscono un contenuto. Per il mercato questi passaggi non sono privi di problemi, ma non per questo l’industria culturale – tradizionalmente basata sulla distribuzione di contenuti – verrà cancellata da cose come Bit Torrent, Creative Commons, Copyleft, etc. etc.

Secondo me c’è spazio per tutte queste forme di distribuzione del contenuto.

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