Techgarage: che aria tira fra le imprese web 2.0 italiane

Venerdì scorso si è svolto a Roma nella (vecchia) sede della Luiss, Techgarage, un incontro del mondo delle startup italiane sul web 2.0, organizzato dalla Luiss e da DPixel.
Io ci sono andato per diversi motivi: i due principali sono stati vedere un po’ che aria tira nel mondo social media italiano e fare quattro chiacchiere con il mio amico Gianluca Dettori (fondatore di DPixel).
L’incontro era strutturato con due panel – uno iniziale e uno conclusivo – dove testimoni del mondo delle principali aziende italiane portavano le loro riflessioni sulla situazione italica (cito a memoria: Wind, Cisco, Dada) e dove si sentiva anche il punto di vista delle società di venture capital italiane (il secondo panel). In mezzo un’interessante presentazione di alcune startup italiane alla ricerca di ulteriori finanziamenti (oppure no), dove spiegavano business model del loro progetto e rispondevano alle domande del pubblico. Parallelamente in un’altra sala si svolgeva la presentazione di neo-startup a investitori interessati, ovvero società neonate (o in corso di lancio sul mercato) che illustravano le proprie idee di impresa.
La (mezza) giornata a mio avviso è stata proficua, perché ho raccolto una serie di sensazioni sul settore che vado a condividere 🙂

Web 2.0: servizi? No software
Il primo panel è stato piuttosto curioso per via del modo con cui declinavano il concetto di web 2.0. I paragoni si sprecavano infatti con Google, che come tutti sanno ha come core business la commercializzazione di informazioni raccolte tramite il celebre algoritmo di analisi Pagerank. Neanche una parola su servizi offerti tramite applicazioni non software-intensive (penso a roba come Delicious) che stanno cambiando la fisionomia del mercato. Escludendo le interessantissime osservazioni del rappresentante di Dada (a cui va la palma del miglior consiglio della mattinata: “attenti a fare finanziare le vostre startup dalle banche”), tutti gli altri rappresentanti delle aziende vedevano il web 2.0 come un mondo popolato da ingegneri informatici che scrivono il codice del futuro che diventerà la killer application dei prossimi 5 anni. Sicuramente possibilità di questo genere sono previste, ma credo incida sul 10% del mercato, a meno che non crediamo che il web 2.0 sia la declinazione anni 2000 della prevalenza del sw così come era stato definito all’indomani dello scoppio della bolla speculativa della new economy.

Startup nazionali: italia sì, italia no
Un momento veramente spettacolare è stato la presentazione di startup del web 2.0 italiane, con la descrizione della propria idea di impresa, business model, vision/mission e tutto quanto serve per capire come muoversi in questo mercato. E’ stata la parte più figa del convegno: imprenditori giovani, energie nuove, voglia di “coccolare” la propria creatura imprenditoriale. Ed ho capito diverse cose (che ovviamente intuivo, ma che sentirsele raccontare è molto diverso).
1. L’azienda che nasce in Italia e che si muove nell’orizzonte italico è destinata a morire: vale la regola think global, act local (ottimo esempio in questo senso di Jobrapido)
2. I modelli di revenue devono essere la risultante di strategie di business diverse: nessuno vieta che esistono realtà imprenditoriali 2.0 che vivono grazie alla sola pubblicità, ma questa regola non vale per tutte le società, alcune hanno in sè più forte il DNA delle revenue basate sulla pubblicità di altre (e su questo i business model di tipo freemium sono una buona soluzione)
3. Servono molti soldi per iniziare in questo mercato con il piede giusto (banale, ma vero…)
Piccola annotazione: tutte le aziende mostravano una solida idea di impresa, solo una ha parlato in termini di visione ovvero il progetto Wide Tag/Open Spime, che nei 20 minuti a disposizione non è riuscito a far capire cosa diavolo vendesse (ed ancora adesso ho le idee confuse, ma magari è un limite mio)

Teologia del web: business angel, internet evangelist e altro ancora
Il panel finale con i venture capitalist italiani è stato quello più surreale, perché non mi sarei mai aspettato di ascoltare riflessioni tanto conservatrici. In pratica Quantica, Innogest, 360 concordavano tutte su un punto: i business model basati sulla vendita della pubblicità funzionano solo fino a un certo punto e non ci si può fidare completamente.
Tutto ciò ha fatto sbottare – giustamente – Gianluca Dettori (anche lui venture capitalist con la sua società DPixel) il quale ha fatto notare che la pubblicità online non è il modello di business dei prossimi 5 anni, ma è IL modello di business già presente, e questo scetticismo da parte dei venture capitalist italiani non fa bene allo sviluppo di realtà imprenditoriali da social networking.
In fondo sono tre le cose che può vendere un’impresa 2.0:
1. Servizi (con il modello freemium, ma anche roba più targettizzata)
2. Tecnologia (tramite il meccanismo del licensing o della customizzazione)
3. Pubblicità (appunto)

La giornata si è conclusa con l’assegnazione del premio alle neo-società 2.0, messo in palio da Topix (un anno di banda e hosting gratuito), premio assegnato da una giuria presieduta da Mike Butcher di TechCrunch.

Commenti conclusivi: l’ambiente era frizzante, con voglia di fare e di inventare nuovi business, che mi ha permesso di toccare con mano lo stato del 2.0 in Italia (perché il web partecipativo è impresa, non dimentichiamolo). E poi ho rivisto con piacere una serie di amici come Roldano, Stefano, Alessio, Leo, nonchè il mio amico start-upper Davide.

PS: avrei voluto twitterare qualcosa – mi ero portato il mio eee – ma sembra che alla Luiss il concetto di wifi non va oltre il primo piano interrato (e noi eravamo al secondo)…

4 thoughts on “Techgarage: che aria tira fra le imprese web 2.0 italiane

  1. Ciao Davice,
    grazie per il post, molto utile e pieno di informazioni interessanti.
    Non sento molto parlare di web 2.0 all’italiana, l’impressione e’ che spesso le nostre start-up fatichino piu’ di molte altre a trovare il modo per partire.
    Ciao
    Alfredo

  2. Xprof,
    i vincitori del Seed Camp sono Gingercraft, Bookerang e Jabberout. Anch’io sono andato via prima dell’annuncio a causa dell’inconsistenza delle affermazioni dei cosiddetti VC 2.0 (a parte Dettori). Le info me le ha date l’amico Diego Vicamini di Agork.it, partecipante all’Elevator Pitch.

  3. @Alfredo
    Grazie a te per continuare a leggermi dagli schermi di Google Irlanda 🙂
    Effettivamente il web 2.0 italico pare sopito (rispetto ad altre parti del mondo), ma le cose sembrano muoversi anche se la cronica mancanza di un capitalismo industriale vero (e quindi anche di Venture Capitalist all’altezza) secondo me è il vero problema web 2.0 made-in-Italy
    ciao

    @Leo
    esimio futuristico, grazie delle info aggiuntive. Mi ero segnato qualcosina del seed camp, ma mi sono perso gli appunti 🙂

    ciaps

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